La vasta area di Santa Maria della Grotta vanta una storia millenaria e complessa, a partire dalla nascita della città punica di Lilibeo (inizi IV sec. a.C.).

Nella prima fase era destinata a necropoli, con tombe scavate nella roccia del pianoro che molti secoli dopo sarebbe stato il sagrato superiore della chiesa. Le tombe, ipogeiche a pozzo verticale con camera, oppure a fossa (rettangolare o quadrangolare), erano utilizzate per inumazioni; alcune erano invece ad incinerazione entro anfore o piccole fosse.

Nella seconda fase, tra la fine del II e il III sec. d.C., da quando Lilibeo divenne colonia sotto l’imperatore Pertinace o Settimio Severo con il nome di Helvia Augusta Lilybitanorum, l’area fu utilizzata per la cavatura della pietra necessaria all’espansione edilizia della città con ingrottati che penetravano profondamente nella compagine rocciosa ed erano illuminati da pozzi di aereazione (Fig. 2). I numerosissimi tagli praticati nella roccia intaccarono anche gli ipogei e i pozzi punici che vennero in gran parte distrutti.

Fig. 2

Nella terza fase, ricadente in epoca paleocristiana, le latomie cessarono la loro attività e vennero destinate ad area cimiteriale. A tale scopo ben si prestavano i resti degli ipogei e dei pozzi dell’antica necropoli punica, già aperti con la cavatura delle latomie, per realizzare tombe ad arcosolio (nicchia ad arco sopra la sepoltura). Quattro di esse si trovano nell’ingrottato meridionale della chiesa ed una, in particolare, conservava ancora i resti di cinque sepolture del V sec. d.C. (Fig. 3)

Fig. 3

La scoperta di alcune lucerne con la raffigurazione del candelabro a sette bracci (menorah) attesta che il cimitero venne utilizzato da una comunità mista, cristiana e giudaica.

Nella quarta fase, l’area delle latomie fu destinata ad una abbazia di rito greco della regola di San Basilio, riconosciuta e incentivata a seguito della conquista normanna della Sicilia (XI secolo), per volontà del conte Ruggero. Questi, infatti, nel 1097 emanò un importante diploma con il quale veniva istituita a Marsala la prima fondazione cristiana dopo il periodo di dominazione islamica, denominata “Santa Maria della Grotta” in quanto sotterranea.

Per segnalare la presenza dell’abbazia e sorvegliarne l’accesso venne costruita una torre (forse rimasta incompiuta nelle quattro facce), decorata con arcate cieche a rincasso, trasformata in campanile a seguito della successiva costruzione della chiesa (Fig. 4).

Fig. 4

I monaci, insediatisi nel complesso delle grotte, sfruttarono il luogo così come si presentava, realizzando solo semplici opere di adattamento ai fini cultuali. Ricavarono quindi altari e sedili/bancali lungo le pareti rocciose degli ingrottati (Fig. 5) e nei pavimenti scavarono tombe a fossa per la loro comunità.

Fig. 5

Gli altari vennero decorati con affreschi che testimoniano la restaurazione del monachesimo greco, promossa dai re normanni, e i saldissimi legami con la cultura greco-bizantina (Fig. 6).

Fig. 6

Tra gli affreschi si segnala la Teoria di Santi, ancora visibile su una delle pareti dell’ambiente centrale dell’ingrottato settentrionale (Fig. 7). I Santi, identificati con S. Giacomo (Fig. 8), S. Lucia (Fig. 9) e S. Bartolomeo (Fig. 10), sono raffigurati entro archi in posizione ieratica e con il capo circondato dall’aureola, secondo uno stile tipicamente bizantino. Questo affresco, che costituisce una testimonianza di alto livello della cultura pittorica del XII-XIII secolo, per la sua stringente analogia con pitture rupestri dell’Italia meridionale e della Sicilia orientale (Fig. 11), documenta le strette relazioni che intercorrevano tra le comunità religiose di rito greco.

Alla fine del XII secolo S. Maria della Grotta, rimasta senza monaci per motivi ignoti, veniva unificata con l’omonima abbazia palermitana.

La quinta fase, risalente al XV secolo, vede la costruzione di diverse strutture quali altari nella chiesa ipogeica degli ingrottati dei monaci basiliani, alcune tombe dei quali, risalenti al XIII secolo, furono obliterate da un semplice pavimento in mattoni d’argilla (Fig. 12); essa era decorata con intonaci policromi.

Fig. 12

Nel 1550 inizia l’ultima fase antica di tutto il complesso, con la consegna da parte di Carlo V di S. Maria della Grotta ai Gesuiti, che la detennero fino allo scioglimento definitivo dell’Ordine, avvenuto nel 1860.

Sono poco note le vicende della chiesa tra la metà del Cinquecento e il Settecento, ma varie testimonianze pittoriche databili ai secc. XVI e XVII, tra le quali una raffigurazione di San Marco Evangelista sopra un altare dell’ingrottato meridionale (Fig. 13), dimostrano che il complesso ipogeico continuò ad essere frequentato per l’uso liturgico anche in questo periodo.

Fig. 13

È certo che la chiesa doveva trovarsi in stato di abbandono quando i Gesuiti, nel 1712, affidarono il progetto di rifacimento all’allora esordiente, giovane e promettente reverendi sacerdoti don Joanni Amico architetto civitatis Drepani, che di Santa Maria della Grotta fece il suo primo ed importante lavoro, conducendolo per intero, dalla ideazione alla completa realizzazione.

La chiesa barocca, ricavata all’interno dell’antico complesso ipogeico, consiste in una grande aula a navata unica, interamente rivestita di stucco bianco e scandita da quattro archi/cappelle laterali (due per lato), inquadrate da paraste e modanature a profilo continuo di “ordine gigante” (Fig. 14). La copertura, molto più alta rispetto a quella della chiesa precedente, fu coronata da una cupola rivestita da mattonelle verdi e scandita da costoloni in tufo, simile a quella realizzata a Marsala dallo stesso Giovanni Biagio Amico nel campanile del Carmine (Fig. 15). Una leggiadra balaustra, posta in alto lungo il cornicione della chiesa e un accesso scenografico, costituito da un’ampia scalinata a rampe spezzate, completavano l’opera (Fig. 16).

Passata al Demanio dello Stato nel 1866, la chiesa rimase aperta al culto fino al 1968, quando venne chiusa per i crolli provocati dal terremoto.